«Sono fanatici autodidatti»
Dal Veneto ai teatri di guerra viaggio tra i nuovi «terroristi»
PADOVA — Lo scorso dicembre l’imbianchino bosniaco Ismar Mesinovic ha fatto in fretta e furia le valige e ha salutato gli amici del centro culturale Assalam di Ponte nelle Alpi, il paesino del Bellunese nel quale viveva dal 2009. Poi ha raggiunto sua madre in Germania e da lì è andato in Siria, portandosi appresso il figlioletto di due anni, del quale si sono perse le tracce. E lì, nella terra dell’Isis, l’imbianchino è morto, a gennaio, ucciso mentre combatteva contro il regime di Assad. Non è l’unico jihadista partito dal Veneto per offrire il proprio contributo a una delle tante Guerre Sante sparse per il mondo. Prima di lui ce ne sono stati altri. In principio fu Hussein Saber Fadhil, detto «il Califfo», venditore padovano di kebab arrestato dal Ros nel 2007 con l’accusa di essere il capo di una cellula vicina ad Al Qaeda e collegata ad Al Zarqawi e di aver progettato un attentato a Bagdad con lanciarazzi e kamikaze. Tutto confermato, anche se in seguito il tribunale di Venezia ha sancito che «le iniziative della sua formazione erano finalizzate a colpire obiettivi non militari».
Quindi è da considerarsi un combattente, non un terrorista. Ma il risultato è che dal Califfo che si preparava a combattere in Iraq – e che ancora oggi continua a vendere kebab a Marghera - fino all’imbianchino che ha scelto il martirio in Siria, nella terra che fu l’impero della Lega Nord ci sono sempre più persone affascinate dalla jihad. Attualmente in Veneto ci sono 110 tra centri di preghiera e associazioni culturali islamiche. Luoghi tenuti sotto stretto controllo dai carabinieri e dalla Digos, oltre che dai servizi segreti che indicano Padova come una delle zone «calde» per l’indottrinamento e il reclutamento di uomini disposti a combattere per l’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) l’organizzazione che spadroneggia in territorio iracheno e siriano. Nella nostra regione sono tra i venti e i trenta, quei musulmani finiti sotto stretto controllo per via delle loro idee estremiste o per le pessime frequentazioni. Immigrati originari del Medio Oriente, profughi afghani e reduci scampati al tracollo dell’ex Jugoslavia. Ma tra loro ci sono anche degli italiani convertiti all’islam, considerati vicini alle posizioni fondamentaliste. Si conterebbero sulle dita di una mano, invece, quelli che hanno sposato la causa della jihad al punto da essere disposti a lasciare l’Italia per arruolarsi, o che l’hanno già fatto, come nel caso di Ismar.
«Sono disperati, spesso senza famiglia nè un lavoro stabile», confida un investigatore. Gente che non ha nulla da perdere e che si lascia facilmente incantare dai «reclutatori»: imam estremisti o semplici fanatici (in genere ex combattenti) che sono gli unici ad avere un contatto diretto con i campi di battaglia. In Veneto non risultano zone di addestramento. Se un tempo le grandi organizzazioni terroristiche spingevano per creare cellule nei Paesi occidentali (diverse inchieste hanno dimostrato collegamenti tra il Veneto e Al Qaida), oggi il lavoro dell’antiterrorismo è molto più complicato: gli aspiranti jihadisti sono definiti «autodidatti », perché si organizzano restando a casa, davanti al computer. Su internet trovano tutto, dai sermoni che inneggiano alla Guerra Santa alle istruzioni per fabbricare ordigni rudimentali. Quanto basta per ottenere un’infarinatura generale, il resto lo impareranno quando entreranno nelle squadre dei miliziani. Gli investigatori fanno quel che possono per tenerli sotto controllo. «Quelle sul terrorismo sono indagini complicate, e spesso le forze dell’ordine devono fare i conti con la scarsità di uomini e mezzi», dice il veneziano Felice Casson, senatore democratico componente del Copasir, il comitato di controllo sui servizi segreti. «Alla necessità di rinforzare le unità che si occupano di questo problema, si aggiunge quella di riallacciare adeguati rapporti istituzionali a livello internazionale, perché solo con la collaborazione di tutti è possibile arginare l’emergenza terrorismo ». Con l’acutizzarsi della situazione in Medio Oriente, le violenze in Siria e i conflitti tra israeliani e palestinesi (è di tre settimane fa l’espulsione di Abdelbar Raoudi, l’imam di San Donà di Piave che aveva invocato la morte degli ebrei per mano di Allah), gli investigatori hanno osservato una forte agitazione tra gli integralisti islamici che vivono in Veneto. La dimostrazione sta (anche) nell’impennata delle ricerche «sospette» effettuate attraverso internet, che vengono costantemente monitorate. Anche per questo, prefetture e questure hanno alzato il livello di guardia: aeroporti e punti sensibili vengono tenuti sotto strettissimo controllo. In Veneto sono decine i possibili obiettivi che potrebbe scegliere un attentatore, ma due vengono considerati i luoghi più a rischio perché in grado di garantire ai fondamentalisti un’eco internazionale: Venezia, città che all’estero rappresenta l’Italia intera, e la Basilica di Sant’Antonio a Padova, simbolo del cristianesimo che attira ogni anno milioni di fedeli da ogni parte del mondo. «Ci vuole attenzione ma senza sfociare nella paranoia», avverte Casson. In fondo, secondo i servizi segreti, nella nostra regione, come nel resto d’Italia, la presenza di estremisti è minore rispetto ad altri Paesi europei. «Ma basta un unico folle per provocare danni enormi - è il monito del commissario del Copasir - quindi il pericolo, anche da noi, è concreto».
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